Con la fine della pandemia si è aperta una grande opportunità per il mondo del lavoro: affiancare al lavoro tradizionale, oggi definito “in presenza” (curiosa definizione che non avrebbe avuto alcun significato prima di questo grande e forzato esperimento sociale), il cosiddetto lavoro agile. I vantaggi sembravano essere molteplici: riduzione dei costi per le aziende, minor impatto ambientale, produttività garantita a dispetto di antichi pregiudizi, grandi vantaggi sul fronte work-life balance apprezzati dalla maggior parte dei lavoratori. Ma come accade spesso nelle vicende umane, quando non si creano le condizioni per poter sviluppare la necessaria consapevolezza, si è generato un dibattito fortemente connotato da elementi ideologici ed emotivi. Solo così si spiegano le scelte, a volte del tutto contrapposte, dei singoli individui come delle grandi aziende. I recenti casi di alcune big tech, quello di Amazon davanti a tutti, che hanno deciso un sostanziale ritorno al lavoro in ufficio, sono lo specchio di un fenomeno che resiste, ma fatica ancora a trovare una dimensione matura.
Di fronte a situazioni così diverse non è facile fare previsioni; lo scenario è quanto mai fluido per cui anche i dati a disposizione appaiono spesso contradditori, e poi, al di là dei dati, esiste il sentimento e l’opinione dei lavoratori che, in diversi sondaggi, hanno manifestato l’intenzione di non voler tornare alla dimensione tradizionale del lavoro dopo aver sperimentato quello agile. In Italia questa tendenza è confermata da una recente indagine svolta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano che, oltre a registrare un aumento del 5% dello smart working per il 2025, conferma che il 73% di chi ne usufruisce si opporrebbe all’obbligo di rientrare definitivamente nelle sedi di lavoro.
Se nel prossimo futuro dovesse prevalere la tesi sostenuta da Andy Jassy, Ceo di Amazon, che nella lettera rivolta ai lavoratori afferma che “lo smart working apparterrà sempre più al passato, perché stare insieme in ufficio rende più semplice imparare, fare brainstorming e inventare”, il rischio che si crei una forte contrapposizione tra lavoratori e aziende è molto alto, e questo non potrà che ritardare ulteriormente lo sviluppo di strategie evolute riguardo alla dimensione ibrida del lavoro. È davvero questo l’unico esito possibile?
È opinione diffusa considerare gli strumenti tecnologici per loro natura neutri, dipenderebbe quindi solo da noi l’uso buono o cattivo che ne facciamo. Molte delle vicende precedentemente esposte, riguardo allo smart working, sono l’ennesima dimostrazione che questo modo di ragionare è sostanzialmente sbagliato. Può essere utile, a tal proposito, richiamare la lucida analisi di Marshall McLuhan, che valutava con estrema severità questa opinione, definendola “l’opaca posizione dell’idiota tecnologico”, e spiegava come l’essenza delle innovazioni legate alla comunicazione era da ricercare nel “mutamento di proporzioni, di ritmo, di schemi che introducono nei rapporti umani”. Lo smart working non sfugge a quest’analisi, per cui il rischio di una sterile contrapposizione è intimamente legato a una mancanza di consapevolezza e di profondità di pensiero.
Chi nelle aziende pensa di poter riportare i lavoratori all’interno degli uffici, se non del tutto almeno in modo prevalente, non riesce a prendere atto che qualcosa è mutato per sempre nella testa delle persone, non solo perché il lavoro agile produce evidenti vantaggi nell’organizzazione della propria vita, ma perché i lavoratori sono stati capaci di dimostrare, superando un pregiudizio largamente diffuso, che buoni livelli di produttività si possono generare anche in totale assenza di controllo. Autonomia, indipendenza, libertà di scelta rispetto alla dimensione tempo, sono in fondo cambiamenti permanenti che la rivoluzione digitale ha portato nella vita di tutti noi, disintermediando attività e funzioni che prima contemplavano inevitabili relazioni di dipendenza. È aumentato, in sintesi, il senso di libertà e autodeterminazione nella percezione delle persone.
Le aziende, dal canto loro, cominciano a considerare come marginale il beneficio sui costi di gestione, a fronte di qualcosa di più importante che rischia di sfuggirgli di mano. Il tema è legato al controllo. Ma non si tratta più dell’antico controllo diretto sull’attività del lavoratore, il problema riguarda qualcosa di più sottile: l’engagement, quei meccanismi di identificazione, fiducia e di partecipazione emotiva agli obiettivi e ai destini della propria azienda. Per cui le aziende sembrano oscillare tra la necessità di accordare una parte di lavoro agile, in assenza del quale temono di perdere i giovani talenti, e il tentativo di ristabilire antiche certezze.
In realtà è tutto da dimostrare che non sia possibile ottenere un elevato coinvolgimento attraverso adeguate strategie e progetti di smart working. Le aziende hanno ragione a sottolineare come alcuni processi di lavoro non funzionano, o funzionano molto male a distanza, ma costruire efficaci strategie di lavoro ibrido significa proprio saper riconoscere queste differenze trovando il giusto equilibrio tra le diverse modalità di lavoro. Evitare quindi sterili polarizzazioni e impegnarsi nello sviluppo di nuove sensibilità e competenze. La dimensione digitale del lavoro riduce enormemente la quantità di segnali legati alla parte più antica e istintiva della nostra comunicazione. La minore possibilità di gestire le dinamiche di relazione nella loro sede naturale impone la capacità di farlo utilizzando le moderne tecnologie di comunicazione. Il gesto istintivo dev’essere sostituito dalla parola consapevole, capace di rendere esplicito, attraverso il dialogo, quanto era implicitamente chiaro nella relazione naturale. Si tratta di una competenza tutt’altro che elementare (tecnicamente definita metacomunicazione) e quasi del tutto estranea alla cultura del lavoro che abbiamo conosciuto finora. Agire una relazione e saper parlare sulla relazione sono abilità completamente diverse.
Serviranno ancora alcuni anni per comprendere pienamente le grandi trasformazioni che stanno attraversando il mondo del lavoro, pochi dubbi invece riguardano l’inizio: quella cesura netta rappresentata dalla pandemia. Ma il cambiamento più profondo, forse, è già osservabile. Riguarda, riprendendo le parole lungimiranti di McLuhan, “il mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi introdotto nei rapporti umani”. Un esempio ci può aiutare a comprendere meglio quest’ultimo passaggio.
Come i pesci del famoso racconto di David Foster Wallace, che non s’interrogano sull’acqua in cui nuotano, anche un nostro antico progenitore non avrebbe compreso la parola “lavoro”, perché tale attività coincideva con il tempo della vita, e non vi era alcuna distinzione. Questa rappresentazione della nostra esistenza, sopravvissuta per secoli, si è dissolta con l’avvento della modernità. Altrimenti che senso avrebbe parlare di work-life balance? Il tempo e lo spazio dedicato al lavoro è stato, nell’esperienza di molti di noi, un’entità separata e distinta dal resto della vita. Eppure, oggi, quella distinzione che nella concretezza dei gesti non esisteva per quel nostro progenitore lontano, rischia di non esistere più nel nostro “spazio mentale”: sono in molti ad ammettere ormai (nell’era digitale) di non essere più capaci di poter tracciare una linea netta che divida il tempo di lavoro dal resto della vita. E quindi, se è vero che “gli esseri umani non hanno mai abitato il mondo ma sempre e solo la sua rappresentazione”, forse non è così lontano il tempo in cui quella frase, un po’ elitaria e oggigiorno anche politicamente scorretta di Joseph Conrad, racconterà qualcosa delle nostre vite: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”.
Testo di Massimo Berlingozzi
Fonte Harvard Business Review Italia
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