Dopo gli Australian Open, il Roland Garros e il torneo di Wimbledon, si è concluso anche lo US Open. Luoghi diversi, superfici distinte, ma con gli stessi dettagli che decidono le sorti: una palla che lambisce la linea, un riflesso che arriva un istante in ritardo, un pensiero che fugge altrove.
Nel tennis l’errore risiede raramente nella tecnica. Di solito prende forma quando la mente si allontana dal qui e ora e scivola nel passato, nella paura di ripetere un errore, oppure nel futuro, immaginando conseguenze nefaste. Altre volte il pensiero si dissolve semplicemente nel nulla, incapace di rimanere centrato sul presente. Ormai ne siamo tutti consapevoli, la difficoltà nel mantenere la concentrazione non riguarda solo gli atleti, ma appartiene a chiunque si trovi a decidere in contesti di alta pressione. Manager, HR e intere organizzazioni oggi sono immersi in mercati che cambiano a velocità esponenziale, spinti dall’instabilità dei modelli di consumo e da un flusso continuo di innovazioni.
In questo contesto si può definire la concentrazione come l’atto semplice, e al tempo stesso radicale, di mantenere una linea interna e di non lasciarla frantumare dal rumore di fondo. È un atto intenzionale di protezione delle risorse, e per un leader vuol dire anche saper focalizzare le proprie intenzioni al fine di creare un ecosistema che permetta all’intera organizzazione di riconoscere i momenti decisivi.
La concentrazione, infatti, non è solo una competenza individuale di gestione cognitiva, ma anche una qualità relazionale che può essere allenata in gruppo. Quando un’organizzazione è concentrata riesce a isolare l’essenziale e a proteggere i momenti determinanti. È il contrario del multitasking permanente, che spesso viene scambiato per efficienza, ma che in realtà produce solo frammentazione, rallentamenti e calo della qualità.
Nella mia esperienza vedo spesso organizzazioni che arrivano ai momenti chiave, come una riorganizzazione o il lancio di un nuovo prodotto, con il fiato corto e invase da troppe priorità. In queste condizioni la concentrazione evapora e con essa la capacità di cogliere l’attimo decisivo, perché si moltiplicano le distrazioni e le emozioni diventano difficili da regolare, proprio come quando in campo si sta giocando un punto decisivo.
Nella nostra epoca, purtroppo, la distrazione è la condizione normale; quindi, la differenza la fa chi ha la capacità di accorgersene e scegliere intenzionalmente di mantenere l’energia su una precisa attività. Questo non impedisce gli errori, ma proprio come il giocatore che sbaglia e non si lascia trascinare dal punto perso, un leader deve imparare a non amplificare l’errore, a non farlo diventare identità e a riportare la concentrazione nel team.
La concentrazione è un atto di fiducia. Fiducia che il mondo possa essere momentaneamente messo tra parentesi; che il team saprà reggere questa pausa di ricerca, e che l’ossessione per il controllo venga per un momento abbandonata. È un atto di coraggio, quasi politico, perché contrasta l’imperativo culturale della reperibilità continua e della risposta immediata. In fondo, quando siamo concentrati siamo pienamente nel presente, disponibili all’incontro con ciò che si sta facendo, con chi si ha davanti, evitando risposte automatiche e reattive.
I campioni lo sanno bene, i manager a volte lo dimenticano. Eppure, quando un’azienda perde il focus, accade qualcosa di simile a uno scambio mal gestito: l’avversario prende il ritmo, la fiducia crolla, la vittoria si allontana. Il tennis insegna che non si può vincere sempre, ma si può imparare a custodire l’attenzione. Forse non vedremo mai un manager chiudere gli occhi tra una riunione e l’altra, come fa un giocatore nelle pause tra i vari game, ma possiamo immaginare aziende capaci di difendere i propri spazi mentali e di restare lucide anche mentre tutto intorno accelera.
Come ricordava Steve Jobs: “Il focus non significa dire sì a ciò che è importante, ma dire no a centinaia di altre buone idee.”
Testo di Diego Ingrassia
Fonte: Harvard Business Review Italia
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